Il Revenge Porn è un reato, il Sexting no

Ci chiedono la differenza tra “revenge porn” e “sexting”… facciamo chiarezza:

Sexting: Dall’inglese sex -“sesso”- unito a texting -“messaggiare”-, si riferisce all’invio consensuale e privato di messaggi, immagini o video a sfondo sessuale o sessualmente espliciti tramite dispositivi informatici. Si tratta dunque di una pratica sessuale, niente di più e niente di meno, che può entrare a far parte della vita relazionale di una coppia, che può favorire anche intimità e sessualità positiva soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo – caratterizzato da un distanziamento sociale che può sfociare in isolamento.

Vi deve essere un accordo esplicito tra chi invia (che desidera farlo) e chi riceve (che desidera essere in questa posizione); la possibilità di scegliere di interrompere la pratica o dettarne e condividerne i confini. Come tutte le pratiche sessuali, comporta alcuni rischi di cui è bene avere consapevolezza: i dispositivi possono essere hackerati, rubati, persi. Come nelle altre pratiche sessuali, ci sono delle precauzioni che possono essere prese per evitare di incorrere in alcuni rischi, e in questo caso, degli accorgimenti potrebbero riguardare: non mostrare il volto, segni fisici particolari o ambienti riconoscibili; utilizzare piattaforme di condivisione sicure, stabilire con *l* partner di cancellare subito il materiale dopo averlo inviato/ricevuto.

Come in tutte le attività relazionali, sessuali e non, c’è anche un altro rischio, di natura appunto relazionale, che riguarda il patto di fiducia che si instaura con *l* altr*.

E qui veniamo a un altro termine, Revenge Porn: letteralmente “vendetta porno”, il termine si riferisce alla diffusione in Rete di immagini sessualmente esplicite senza il consenso del soggetto ritratto, che di solito è una donna, con scopo denigratorio.

A differenza del Sexting, pratica come si è detto privata e legale, il Revenge Porn è un reato. Introdotto in Italia nel 2019 all’interno del cosiddetto Codice Rosso, è definito come il reato di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate” ed è punito con la reclusione da uno a sei anni. La pena è prevista non solo per chi acquisisce o diffonde per il materiale, ma anche per chi, avendolo ricevuto, lo inoltri a sua volta.

Lo scopo di tale pratica è di solito punire, denigrare, umiliare la vittima, che nel 90% dei casi è una donna, spesso una ex partner. La logica è che, avendo perso controllo sul corpo della donna, se ne condivida l’immagine, in modo che anche la donna stessa ne perda la proprietà. “Se non puoi essere mia, almeno sarai rovinata”. Spesso a questo abuso se ne accompagna un altro, quello del “doxing”: la condivisione dei dati personali della vittima (nome completo, numero di cellulare, profili social e a volte persino l’indirizzo di casa), allo scopo di far convergere verso di lei le molestie, gli insulti, lo stalking e i ricatti da parte del “branco” con cui sono state spesso già condivise anche foto.

La diffusione non consensuale di immagini intime e informazioni private porta alla sovraesposizione della vittima, la cui vita e le cui scelte vengono spesso scandagliate e giudicate, molto di più di quelle dell’aggressore.

Nella cronaca recente si è parlato molto del caso della “maestra di Torino”: le testate giornalistiche riportano la sua professione (professione che tra l’altro è talmente sessualizzata da costituire una categoria specifica nel porno mainstream), la quantità specifica e la natura del materiale privato che ha condiviso con un uomo di cui si fidava, la durata della sua relazione con lui. Tutte informazioni che dovrebbero servirci a formare un giudizio preciso su di lei e sul suo comportamento. Dell’uomo invece, o meglio del “ragazzo”, come viene definito, sappiamo che giocava a calcetto, lo inseriamo dunque sin da subito in un contesto goliardico, informale, deresponsabilizzante: non sappiamo che lavoro faccia, non è importante. Non ci viene detto il numero esatto di contenuti che ha criminosamente condiviso sul gruppo WhatsApp degli “amici del calcetto”. Viene sottolineato solo il numero di contenuti che lei, la donna, ha condiviso privatamente con il suo partner, cosa che al contrario crimine non è. Perché c’è quest’attenzione ossessiva sulla vittima e non sul carnefice? Perché è la vittima a rischiare il posto di lavoro e non il carnefice? Lui nei video c’era o no? E di foto quante ne ha mandate, lui? E che lavoro fa? Non dovrebbe essere più preoccupante far giocare i propri figli a calcetto con un allenatore che ha commesso un reato sessuale ai danni di una sua partner, piuttosto che mandarli a scuola con una maestra che, scandalo degli scandali, ha rapporti sessuali con il suo partner? Può ancora sconvolgere che una donna abbia una sessualità attiva ci sconvolge ancora così tanto? E perché si tende a deresponsabilizzare invece il perpetratore del crimine?

Si potrebbero spendere molte parole a difesa della vittima, ma in realtà non ci dovrebbe essere alcun bisogno di difenderla, perché non dovrebbe essere lei ad essere sotto accusa. Una persona che ha subìto un’offesa, di qualsiasi natura, può essere una persona simpatica o antipatica, morale o amorale, emancipata o plagiata, ma tutto questo non è rilevante. Quella persona è comunque una vittima dell’offesa che le è stata arrecata, indipendentemente da come lei sia o non sia, dalle sue scelte, dalla sua vita privata o dalla sua sessualità.

La diffusione non consensuale di immagini può avere un impatto gravissimo sulle vittime, emblematico il caso di Tiziana Cantone, che – in seguito alla diffusione di un video girato dal suo ex e alla gogna mediatica che ne è conseguita per lei – si è tolta la vita.

La diffusione non consensuale di immagini è anche un problema sistemico: non si tratta soltanto di casi isolati di uomini che “con leggerezza” commettono “uno sbaglio”. Lo scorso aprile un’indagine di Wired ha portato alla luce le nefandezze che avvenivano (e purtroppo continuano ad avvenire) in un gruppo Telegram con oltre 40mila utenti. La “Maestra di Torino”, da quando è stata esposta all’attenzione dell’opinione pubblica, era diventata la ricerca più frequente sulle principali piattaforme di streaming di contenuti pornografici in Italia. Manca completamente un’educazione al consenso e al rispetto della privacy, pensiamo tutti di essere in diritto di fruire di materiali che sono stati condivisi illegalmente senza il consenso del* legittim* proprietari*, per il solo fatto che tali materiali si trovino in Rete, e nonostante in Italia esista il diritto all’oblio, “una particolare forma di garanzia che prevede la non diffondibilità di alcuni dati pregiudizievoli per l’onore e la reputazione di una persona”.

L’opinione pubblica si divide tra chi pensa che non ci sia nulla di male a visionare – e magari anche a diffondere – un contenuto derivato da una violazione criminosa dell’intimità di una persona che si era fidata, e chi pensa che in fondo lei, la vittima, avrebbe potuto evitare di farsi quelle foto. Ma da dove nasce questo meccanismo di colpevolizzazione della vittima? Se dei ladri entrassero a casa nostra e rubassero, la maggior parte delle persone non mi verrebbe certo a dire che – in fondo in fondo – dovevo saperlo che esistono i ladri, e potevo pensarci prima a mettere un allarme. Perché allora con le donne che subiscono crimini sessuali si finisce sempre a riportare la responsabilità su di loro?

Sicuramente perché, volenti o nolenti, subiamo tutt*, uomini e donne, le influenze di una cultura patriarcale, che tende a ipersessualizzare le donne e incasellarle nel binomio di “sante o puttane”. Quando le donne supportano questo pensiero, che in fin dei conti va a ledere proprio loro stesse, manifestano semplicemente quello che è il sessismo interiorizzato. Avviene quando una categoria discriminata assorbe dall’ambiente che la circonda le idee e gli stereotipi che la riguardano. Spesso è più facile pensare che gli stereotipi siano veri che riconoscere che la società sia ingiusta, perché questo ci farebbe troppa paura. Si tratta dello stesso meccanismo che si adotta quando si dice “se  l’è cercata” o “se lo meritava”: è rassicurante pensare in questi termini poiché danno certezza che se non ci si comporta in alcuni modi, se non ce la si va a cercare, si è in salvo.

Molto più difficile è accettare che, nella società in cui viviamo, cose terribili potrebbero succedere a qualsiasi donna, anche a me. Un pensiero, anzi una possibilità concreta, senz’altro agghiacciante, ma anche una consapevolezza necessaria da cui partire per provare a rovesciare la cultura vigente e costruire una nuova educazione basata su parità, rispetto e consenso.